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sabato 7 marzo 2015

ARTICOLO " I SERVIZI EDUCATIVI AL TEMPO DEL MASSIMO RIBASSO" DA PIAZZA GRANDE DI MARZO.

Lavorano sul campo, a stretto contatto con il disagio sociale e cercano di aiutare le persone a migliorare le loro condizioni di vita: gli educatori sostengono così una fetta considerevole del Welfare ma, purtroppo, subiscono altrettanto considerevolmente le conseguenze legate ai massicci tagli. Solo a Bologna negli ultimi anni il Welfare è stato decurtato del 15% circa andando a colpire tutti i servizi educativi: dalla scolastica, ai socio-educativi, all'assistenza domiciliare.
“I recenti appalti pubblici privilegiano le offerte economicamente più vantaggiose a discapito della qualità offerta e della situazione lavorativa degli operatori – spiega Rosario B., educatore di 44 anni che attualmente lavora per la CADIAI e fa parte del collettivo Educatori contro i tagli -. Assistiamo ad un incremento esponenziale del part-time, non perché ve ne sia esigenza bensì perché non vi è possibilità di sostenere il costo di operatori full-time. Lo stipendio medio di un tempo pieno è di circa 1.100€ comprensivo delle ore, degli eventuali turni di lavoro e della professionalità”.
Inevitabilmente ciò ha ripercussioni sulla qualità offerta: il tempo da poter dedicare ai servizi richiesti è minore, i professionisti da poter impiegare sono pochi rispetto alle esigenze e crescono i bisogni non soddisfatti. Inoltre sono stati ridotti i servizi di prevenzione, “ciò però non significa risparmio: tagliare sulla prevenzione si traduce poi in una spesa maggiore sull'emergenza”.

Educatori contro i tagli si è formato 4 anni fa a Casalecchio di Reno in risposta ad un taglio di 1 milione e 780 mila euro che l'ASC InSieme (Azienda Speciale Consortile Interventi Sociali Valli del Reno Lavino e Samoggia) aveva proposto sui servizi alla persona. La grande movimentazione è riuscita a tamponare questo taglio, ed il collettivo ha deciso di rimanere attivo per diffondere informazioni e mantenere costante l'attenzione sulle questioni sociali (educatoricontroitagli.blogspot.it). Inoltre è tra i fondatori di una rete nazionale di operatori sociali che chiede il “rifinanziamento immediato dei fondi alle politiche sociali che negli ultimi anni, a livello nazionale, sono stati tagliati di circa il 95% – sottolinea Rosario -. Bisogna anche riprendere a garantire appalti non improntati al ribasso e tutelare il contratto nazionale per questo settore (il CCNL per le Cooperative Sociali). Conosco cooperative che, pur di vincere gli appalti offrendo servizi economici, assumono i professionisti con contratti a tempo determinato, a progetto o voucher. Ne perde la stabilità, la continuità lavorativa e la qualità offerta”.



Sarah Murru


ARTICOLO "LA PRECARIETA' DEGLI EDUCATORI" DA PIAZZA GRANDE DI MARZO.

“Il lavoro dell'educatore è irto di difficoltà, ma è profondamente stimolante: mi mette di fronte a realtà che mi aiutano a conoscermi e a crescere”. A raccontarlo è Martina G., una ragazza di 27 anni che da 10 anni lavora come educatrice a Bologna. A 17 anni Martina è entrata in questo settore lavorando con ANFFAS in un soggiorno estivo per ragazzi disabili. Durante il terzo anno di università – indirizzo: educatore professionale – ha svolto tirocinio presso la cooperativa Rupe nella comunità terapeutica femminile per tossicodipendenti, al termine del quale ha avuto prima un contratto per un periodo di prova, poi diversi contratti a tempo determinato a 38 ore ed infine il tempo indeterminato. “Due anni fa ho iniziato a lavorare, sempre in Rupe, nella comunità educativa per minori, dove lavoro tutt'oggi anche se adesso il mio datore di lavoro è la cooperativa Open Group, nata l'anno scorso dalla fusione di Coopas, Voli e La Rupe”. All'interno della comunità minori Martina si occupa, all'interno di una equipe di educatori, della regia del PEI – progetto educativo individualizzato – di diversi ragazzi. Il suo ruolo consiste nel sostenere i minori nella gestione della loro quotidianità e tenere rapporti con scuola, attività sportive, strutture sanitarie, servizi sociali ed eventuali organi legali. “Il nostro compito è quello di stare accanto ai ragazzi, né davanti né dietro: li accompagniamo e aiutiamo a gestire un pezzo della loro vita”. Sia all'interno della comunità minori che in femminile il lavoro è articolato su turni che devono coprire le 24 ore 7 giorni su 7. “Penso che una delle complessità di questo lavoro sia quella di ricordarsi sempre che non si è onnipotenti, che le persone che cerchiamo di aiutare sono libere di scegliere della loro vita a prescindere dai nostri consigli e che se ciò avviene non è da considerare un fallimento. Anzi, è proprio in questi momenti che bisogna continuare a stare accanto alle persone che seguiamo: dobbiamo sostenerle anche quando cadono e soprattutto essere noi i primi a credere nella possibilità di un loro cambiamento”.

Marco M. - 40 anni – ha invece smesso di lavorare per le cooperative da circa un anno. Con un'esperienza di educatore di quasi 15 anni, Marco ha lasciato due contratti a tempo indeterminato per un tempo determinato aperto dal Comune di Bologna come educatore interno ad una scuola per il centro educativo. “Negli ultimi 10 anni ho cambiato circa 6 o 7 cooperative: mantenevo il mio servizio, ma cambiava la cooperativa che vinceva l'appalto. Perchè ho lasciato due indeterminati? Erano una finta stabilità: lavoravo 9/10 mesi l'anno in contemporanea all'anno scolastico, ma per circa 2 mesi ero senza lavoro e stipendio e non potevo chiedere disoccupazione in quanto titolare di un contratto a tempo indeterminato, inoltre venivo pagato ad ore lavorate e non con un fisso mensile. Insomma ero un precario a tempo indeterminato!”.
Al pomeriggio Marco lavora al centro educativo e segue generalmente tra i 10 e 14 ragazzini delle medie ed elementari. L'attività consiste nel fare i compiti con i ragazzi e nel realizzare attività che abbiano un valore educativo. Tutti i servizi sociali fanno riferimento ai centri educativi per inserire i ragazzini che hanno diverse problematiche familiari affinchè passino ore della giornata in un ambiente protetto, educativo e stimolante. “Mi rendo conto che da un anno a questa parte ho più tempo per svolgere il mio lavoro in maniera completa: quando lavoravo con le cooperative facevo 18 ore a diretto contatto con i ragazzini e solo 2 ore di programmazione e gestione della rete intorno ai minori che seguivo. Adesso invece faccio 20/25 ore a diretto contatto con i ragazzini e 10/12 ore indirette, durante le quali ho tempo di creare una rete relazionale migliore sia con i servizi sociali sia con i genitori”.
Secondo Marco una delle maggiori difficoltà del lavoro di educatore interno alle cooperative è proprio legata ai tempi: “se vuoi fare un buon lavoro il tempo retribuito non basta. Ormai che ha preso piede la logica del dare l'appalto al miglior offerente e non al miglior servizio ci si ritrova purtroppo o a dedicare il proprio tempo libero al lavoro oppure a fare un lavoro incompleto”.



Sarah Murru


mercoledì 4 marzo 2015

ANCONA - REPORT DELL'ASSEMBLEA OPERATORI/TRICI SOCIALI DEL 28 FEBBRAIO 2015

4 / 3 / 2015
Entusiasmante l'assemblea delle operatrici e degli operatori sociali tenutasi sabato 28 febbraio 2015 presso la sala ANPI ad Ancona, entusiasmante perché la sala era piena e i/le partecipanti hanno dato vita a un dibattito franco e sentito, intrecciando tematiche locali e nazionali sulla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori del sociale, a partire dagli interventi della Rete Nazionale Operatori Sociali, di EducAttivi di Rimini, Di Educatori Contro I Tagli di Bologna, di Operatrici e Operatori Sociali di Milano, di Educatori Senza Diritti di Monza e della Rete Operatori/trici Sociali di Ancona. 
La Rete di Ancona ha, poi,  presentato all'assemblea la sua adesione e il suo sostegno alla Campagna "Trasparenza e Diritti".
I/le partecipanti hanno compilato un questionario le cui risposte ci aiuteranno a comprendere meglio cosa succede nel nostro lavoro nel nostro territorio.
Prossimi appuntamenti saranno un'iniziativa pubblica con Fabio Ragaini del Gruppo Solidarietà e della Campagna "Trasparenza e Diritti" per capire cosa cambia per utenti e lavoratori/trici alla luce degli ultimi provvedimenti della Regione Marche riguardanti i servizi socio-sanitari; e la presentazione a maggio del libro "La rivolta del riso. Le frontiere del lavoro nelle imprese sociali tra pratiche di controllo e conflitti biopolitici" edito da Sensibili alle foglie.
Link articolo completo con video degli interventi ed interviste: http://www.globalproject.info/it/in_movimento/ancona-report-dellassemblea-operatoritrici-sociali/18781

lunedì 2 marzo 2015

"Gli educatori di said, cherif, ahmed e omar" di Paolo Coceancig

Gli educatori di said, cherif, ahmed e omar

A proposito di fondamentalismi, periferie e tagli ai servizi


Trascorso un po’ di tempo dagli eventi criminali di Parigi si pensava dovesse cominciare, una volta smaltito lo shock emotivo generale, il tempo del ragionamento e dell’elaborazione dei fatti, ed ecco che da Copenaghen arrivano nuove terribili notizie: un altro vendicatore sanguinario ha trovato il suo posto a buon mercato in paradiso massacrando chiunque gli sia capitato a tiro.
La biografia personale degli attentatori è sempre la stessa: nativi occidentali, figli disconosciuti di quegli enormi parcheggi di disagio esistenziale che sono diventate le nostre vuote periferie, adolescenze irrequiete consacrate al furto e al piccolo spaccio di quartiere, fuori e dentro da riformatori e galere minorili. La costituzione di un’entità statuale come l’Isis, fornendo un approdo ideologico possibile a queste disperazioni, ha aggravato la situazione.
Sia ben chiaro: nessun trauma infantile, nessuna deprivazione o ritratto famigliare disgraziato possono giustificare l’atrocità, la ferocia e il razzismo degli atti efferati di Parigi e Copenaghen.
Tuttavia, al netto di ogni suggestione contestuale, dobbiamo provare a ragionare su ciò che sta succedendo intorno a noi e dobbiamo farlo in fretta. Noi come sempre lo facciamo dal punto di vista di chi fa il nostro lavoro, l’educatore.  Perché è inutile girarci troppo intorno: molti tra quelli che fanno questo mestiere nei servizi per minori, di possibili fratelli Kouachi, Ahmed Koulibaly, Omar Abdel Hamid el Hussein ne hanno conosciuti anche dalle nostre parti.
Allora, oltre che un dovere professionale, diventa una necessità vitale fare i conti con un fenomeno che, se da una parte sottolinea il palese fallimento dei processi di integrazione delle società del nord Europa (e di quella dei ragazzi delle sterminate e abbandonate banlieue francesi in particolare), dall’altra pone degli interrogativi non da poco anche al nostro quotidiano operare forme di mediazione sociale sul territorio italiano. Ricordo ancora il balbettante imbarazzo del collega francese che, intervistato su ciò che avevano combinato quelli che erano stati “i suoi ragazzi” in adolescenza, i due attentatori di Charlie Hebdo, non riusciva a capacitarsi del fatto che dei semplici bulletti di periferia potessero un giorno trasformarsi in micidiali armi di distruzione di massa.
Si, sono tutti uguali questi ragazzotti dell’altro lato della tangenziale, uguali anche ai coetanei italiani che vivono sul pianerottolo di fronte: gli stessi smartphone perennemente tra le mani, gli stessi vestiti rigorosamente griffati, lo stesso linguaggio da rappers consumati. Molti tra di loro balbettano a stento un arabo assimilato ascoltando le imprecazioni del padre operaio o disoccupato che rientra sfinito a casa la sera. Cresciuti nell’indifferenza, se non nel fastidio, verso la cultura originaria dei padri, vissuta come qualcosa di estraneo e imposto nel chiuso dei quaranta metri dell’appartamento, da smollareall’istante non appena fuori, scoprono, una volta adulti, la loro condizione di “differenti”, di discriminati, soprattutto in termini di opportunità che la società ospitante offre loro.
Il fondamentalismo islamico si nutre e si ingrassa, lo spiega molto bene Slavoj Zizek, del complesso d’inferiorità di questi ragazzi che diventano da un giorno all’altro facili prede di invasati predicatori da sottoscala. “Il problema dei fondamentalisti non è che li consideriamo inferiori a noi, ma al contrario che loro stessi si considerano segretamente inferiori. Il problema non è la differenza culturale (il loro sforzo per preservare la propria identità), ma il contrario, il fatto che i fondamentalisti sono già come noi, che segretamente hanno già interiorizzato i nostri parametri e misurano se stessi in base a essi. Il fondamentalismo è una reazione — una reazione falsa e mistificatrice, naturalmente — contro un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il liberalismo lo genera, ripetutamente” ha scritto in seguito ai fatti di Parigi il filosofo sloveno.
L’altro giorno sull’autobus mi è capitato di assistere ad una scena molto significativa in questo senso: tre ragazzi di chiara origine maghrebina “pizzicati” senza biglietto dal controllore. Mentre questi stilava i verbali dell’infrazione, i tre, dall’atteggiamento palesemente spavaldo e irritante, continuavano a picchiettare le dita sui loro costosissimi iphone di ultima generazione come se la cosa non li riguardasse.
Altroché valori universali dell’umanesimo occidentale, noi a questi ragazzi abbiamo trasmesso la vocazione insaziabile al soldo a tutti i costi,  le virtù del consumo permanente, la superiorità insolente che infonde il marchio di Dolce e Gabbana sulla striscia di mutande lasciata bell’apposta in vista dai pantaloni a vita bassa. Le libertà civili e quella d’espressione in particolare che tanto evochiamo, siamo noi europei i primi ad averle dimenticate chissà dove, smettendo da un pezzo di coltivarle nel nostro vivere quotidiano e di difenderle così innanzitutto da noi stessi.  “Io so questo: che chi pretende la libertà, poi non sa cosa farsene” scriveva Pier Paolo Pasolini.Non è l’odio per le libertà quello che principalmente muove la ferocia dei terroristi di casa nostra, bensì l’impossibilità di usufruirne (in termini di accumulo di ricchezza, si intende).
E allora, calandoci nel nostro micro, come rispondere al fenomeno nell’immediato? Semplice, intensificando la presenza di presidi educativi permanenti sui territori più a rischio: le periferie, la provincia.  In parole povere, fare prevenzione.
I centri giovanili, e in particolare quelli socio-educativi rivolti ai minori a maggior rischio di esclusione sociale, offrono le professionalità appropriate, se utilizzate in stretta sinergia con altri progetti educativi più “mobili” sul territorio (penso all’educativa di strada), per attuare quei progetti educativi globali di inclusione volti a ridurre sensibilmente il rischio che il ragazzo si trasformi in un asociale incazzato, in un pericoloso cane sciolto, slegato da ogni vincolo comunitario.
Senza dimenticare che tali presidi, viste le caratteristiche di prossimità col bisogno, di vicinanza al disagio e di conoscenza diretta delle dinamiche del luogo, si prestano per loro natura a svolgere un prezioso lavoro di monitoraggio territoriale.
Dalle nostre parti hanno una lunga tradizione questo tipo di interventi, sono nati in tempi in cui il disagio giovanile faceva i conti con numeri più bassi, non era ancora il fenomeno straripante che vediamo ai giorni nostri. Si tratterebbe dunque di potenziare ciò che abbiamo (avevamo?) già, magari solo ricalibrandone modalità e strumenti per renderli più incisivi nella lotta alle nuove forme di emarginazione sociale.
Tutto così semplice? Non proprio.
Non vanno certo in questa direzione le scelte più recenti in materia di politiche giovanili dei nostri governanti locali. Pensiamo allo svilimento in termini qualitativi e quantitativi di certi servizi storicamente rivolti ai minori in alcune aree della provincia, alla recente assegnazione al ribasso della gara d’appalto dei centro giovanili dei quartieri di Bologna, alla propensione della politica, ormai neppure troppo velata, di affidarsi al volontariato e alle parrocchie per lavorare su un “materiale umano” che richiederebbe al contrario una sempre più elevata formazione e preparazione degli operatori impiegati e che così facendo arriva al paradosso di svilire proprio il senso stesso, nobile e produttivo, che possono avere volontariato e associazionismo laddove non sono usati semplicemente come ammortizzatori di costi, come supplenti di un servizio che ogni minore in difficoltà avrebbe il sacrosanto diritto di ricevere invece dal livello di competenza più alto possibile.
Mi si conceda infine una riflessione, la cui evidenza è tale che quasi imbarazza esternarla: se non si fa prevenzione si deve poi fare repressione.
E riempire un territorio di militari e di forze dell’ordine costa molto di più che non riempirlo di educatori, ma la lungimiranza in politica, si sa, è qualità in disuso, roba sorpassata. I risultati del lavoro che noi svolgiamo non hanno una visibilità immediata e questo, unitamente allo scarso appeal elettorale che di questi tempi ha un certo tipo di utenza, sono elementi che hanno un certo peso nella scelta delle priorità che operano i nostri amministratori. Eppure mai come ora sarebbe vitale che la politica ritornasse ad avere delle idee di cambiamento sociale e che le promuovesse con azioni coraggiose anche se impopolari, che promuovesse finalmente una visione diversa di futuro, alternativa e non rassegnata, che togliesse una volta per tutte dalle mani ciniche e incompetenti dei soliti “guardiani del bilancio” incaricati dal partito la guida di servizi la cui complessità richiederebbe amministratori di ben altro spessore.
Bisognerebbe anche che noi lavoratori del sociale iniziassimo seriamente a dirle queste cose, a difendere con fermezza l’esistenza di questi servizi e con esso un’idea diversa, più solidale e comunitaria, di società. Bisognerebbe proprio che cominciassimo a farlo, almeno noi, prima che sia troppo tardi.