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giovedì 20 dicembre 2012

PERCHE' E' COSI' IMPORTANTE LA VERTENZA DEI LAVORATORI DI SOCIETA' DOLCE


Nei giorni scorsi sulla stampa locale sono apparsi numerosi articoli che hanno fatto esplodere a livello cittadino il “caso Dolce”.
In una assemblea sindacale estremamente partecipata i sindacati e i lavoratori del settore hanno sottolineato come Società Dolce ad oggi non stia applicando il Contratto Nazionale, essendosi rifiutata di erogare la 2° tranche dell’aumento contrattuale nei tempi corretti, ossia con la mensilità di ottobre.
Contestualmente, Società Dolce non ha neppure erogato l’ E.R.T., acronimo per Elemento Retributivo Territoriale, vale a dire il premio di produzione che le Cooperative Sociali della Provincia di Bologna erogano annualmente ai propri dipendenti, che dovrebbe versare -in ritardo- con le prossime mensilità.

Pur rientrando all’interno dei criteri che determinano per una cooperativa la necessità di erogare l’E.R.T., Società Dolce ha dato la disponibilità a liquidare questa cifra ma non nell’anno in corso, facendola “scorrere” sulle prime buste paga del prossimo anno.
Per inciso, in maniera del tutto unilaterale, lo scorso anno Dolce aveva suddiviso l’erogazione dell’E.R.T. in tre parti, versandone ai lavoratori prima ½, poi i successivi 2/4.

Nello stesso tempo, girano voci pericolose secondo le quali si vorrebbe modificare il regolamento interno della Cooperativa, riducendo l’integrazione di maternità e l'integrazione per il lavoro supplementare, mentre per il momento sembra sospeso un attacco ai primi tre giorni di malattia, in maniera analoga o simile a quanto successo con il contratto Aias o con quello appena siglato nel settore metalmeccanico (firmato da tutte le principali organizzazioni con l’eccezione di Fiom- Cgil).

Quello che sta succedendo è gravissimo.
Negli ultimi mesi non solo Società Dolce ha deciso di andare in deroga in maniera unilaterale al CCNL (lo ha fatto nonostante i sindacati si siano dichiarati indisponibili a siglare un’accordo sul tema, anche se il contratto specifica che l’esame dev’essere congiunto, sindacato e parte datoriale), ma anche optato per richiedere ai propri soci lavoratori un’ulteriore aumento della quota sociale.

A fronte di queste scelte, Società Dolce si è sempre rifiutata di certificare un qualsivoglia stato di difficoltà economica.

Cosa succederebbe se tutte le aziende del settore, in presenza di una crisi generalizzata, decidessero unilateralmente di non applicare il contratto nazionale?
Accadrebbe quello che anche il più ingenuo può facilmente immaginare: il contratto nazionale varrebbe quanto la carta su cui è stampato, cioè nulla.
Se passa l’idea che una azienda può decidere come, dove, quando e soprattutto se applicare gli istituti contrattuali e gli accordi territoriali sottoscritti dalle centrali cooperative e dai sindacati, non solo si certifica l’inutilità dei tavoli su cui questi temi si discutono, ma si decide che il ruolo delle organizzazioni sindacali è puramente consultivo, mentre le centrali cooperative firmano materiali che le cooperative associate possono bellamente eludere.
Per quanto, come educatori contro i tagli, possiamo aver criticato il Ccnl delle cooperative sociali firmato lo scorso inverno da Cgil, Cisl e Uil, la battaglia che i lavoratori di Dolce stanno portando avanti ha un significato ancora più ampio, e in ultima istanza si tratta della difesa del valore unversale e della applicabilità del contratto di lavoro.

E’ dunque un punto politico prima ancora che economico.
Ad oggi nessuno ha gli strumenti per sapere se la difficoltà di Società Dolce è reale.
Di sicuro questa operazione ha tutto il sapore di una mossa ben architettata per scardinare un fragilissimo sistema di regole in un settore complicato da normare, in cui il confine fra il lavoro e il non lavoro è un margine sottilissimo.

E’ estremamente comprensibile la paura di tutti quei lavoratori che, all’interno di Dolce, temono per il proprio posto di lavoro, per le eventuali difficoltà della cooperativa.
Ma accettare le imposizioni unilaterali di Dolce significa prima di tutto accettare un metodo, accettare di aprire una porta attraverso la quale tutti gli altri vorranno passare, ed è la porta che conduce alla fine dei diritti contrattuali e al completo arbitrio dei datori di lavoro.

Coordinamento Educatori Uniti Contro i Tagli


lunedì 17 dicembre 2012

RIPRENDIAMO DALLA BROCHURE "L'EDUCATORE AL TEMPO DELLA CRISI":


Oggi, il lavoro dell’Educatore, che è lavoro di cura e di relazione, è poco riconosciuto socialmente, generalmente poco pagato e senza prospettive di miglioramento futuro.

 

Il welfare risente fortemente della crisi e dei tagli alle risorse destinate alle Politiche Sociali.  I dati registrano un continuo aumento dei bisogni, mentre il governo e le amministrazioni locali agiscono una riduzione dei costi nella logica del risparmio e si orientano sempre più verso il volontariato. Si prospetta uno scenario complessivo, che vede diminuire qualità e quantità di servizi, mettendo a rischio quasi 25.000 posti di lavoro.
Se intendiamo garantire un equilibrato sistema di promozione e protezione sociale, è necessario aprire una fase costituente del sociale che avvii un processo di riforma del welfare. La crisi dei servizi, dunque, sarà un tema cruciale per l’immediato futuro. In tutto questo, che fine faranno gli Educatori, professionisti del welfare?

 

FORMAZIONE E TITOLO DI STUDIO

- il numero effettivo degli Educatori è stato in costante crescita, con 2052 Educatori nel 2002 fino ad arrivare a 3074 educatori nel 2007; - la maggioranza di Educatori è sempre stata rappresentata dal genere femminile, anche se la percentuale maschile è aumentata progressivamente, fino ad arrivare a circa il 32%, attestando il genere femminile al restante 68%; - se alla fine degli anni ’80 quasi il 56% degli Educatori aveva meno di 30 anni e solo l’8% superava i 40 anni, oggi la proporzione si è invertita: il 42% ha tra 30 e 40 anni e il 21% ne ha meno di 30; - il titolo di studio è un dato che invece si è solo parzialmente modificato rispetto alla fine degli anni ’80: gli Educatori con il titolo idoneo sono l’83.5%, contro il rimanente 16.5% (questo perché la maggior parte degli Educatori aveva ottenuto l’attestato regionale attraverso il decreto ministeriale 10.02.1984)

 

AREE DI INTERVENTO E SISTEMA LAVORATIVO

La disabilità, a partire dalla fine degli anni ’80, rimane ancora un settore in cui vengono impiegati moltissimi educatori (il 34% del totale), ma questa fascia viene oggi sorprendentemente superata dall’area dei minori che si attesta al 36%. Questo non era mai successo. Ciò che è cambiato è l’ente per cui gli Educatori lavorano: se alla fine degli anni ’80 il 33% lavorava nel privato, il 26% presso la sanità pubblica e solo il 4% nelle cooperative, nel 2010 i lavoratori delle cooperative si attestano intorno al 60%, meno del 6% lavora presso le Asl e la stessa percentuale presso Comune/Provincia/Regione. Questo a riprova del fatto che ormai il sistema pubblico non gestisce più i servizi ma, di questi, l’80% viene gestito dalla cooperazione sociale.

 

IL WELFARE SOCIALE NELLA SPESA PUBBLICA ITALIANA

L’Emilia Romagna ha sempre portato alto il suo spirito fortemente orientato al sociale. E’ la regione, che ha sempre vantato il maggior numero di servizi alla persona ed anche per questo è stata definita per molti anni, e forse lo è ancora, la regione italiana in cui la qualità della vita si dimostra migliore. Il welfare in Emilia Romagna è sempre stato una priorità e una grande fonte di investimento, nonostante le risorse nazionali venissero azzerate. Ma, a causa della crisi e dai tagli che il Governo Berlusconi e poi il Governo Monti hanno inflitto alle Politiche Sociali, il welfare ne ha gravemente risentito. Secondo l’analisi del Forum Nazionale del Terzo Settore, il biennio 2010-2011 si è contraddistinto innanzi tutto per una netta riduzione del finanziamento statale alle politiche sociali. Le risorse distribuite alle regioni dal Fnps (Fondo Nazionale per le Politiche Sociali) nel 2011
sono solo un terzo di quelle del 2009; insomma, se fino ad oggi l’obiettivo per i Comuni era stato l’espansione dell’offerta pubblica (si pensi ai nidi, ma anche altri servizi quali l’assistenza domiciliare ad anziani e persone disabili, la tutela dei minori...), nella fase attuale gli sforzi si concentrano per mantenere lo status quo, senza però prevedere una chiara riorganizzazione del sistema del Welfare. Dopo la manovra dell’estate 2011 l’Ifel (Istituto per la Finanza e l’Economia locale) ha stimato che per ottenere lo sforzo finanziario, attraverso la riduzione di spesa richiesta per il 2012, i Comuni dovrebbero tagliare la funzione sociale tra il 12,7% e il 13,5%. Tale contrazione dell’intervento pubblico potrebbe più in generale tradursi in un restringimento dei criteri di accesso ai servizi sociali e ad una maggior difficoltà di accesso ai servizi da parte delle famiglie e dei singoli cittadini. Questo si traduce nella possibilità che il pubblico torni ad intervenire socialmente soltanto nelle situazioni di urgenza conclamata e che abbandoni gli interventi di prevenzione, area in cui vengono impiegati un elevatissimo numero di educatori e che l’urgenza costringa a ridurre i livelli qualitativi dei servizi, mettendo a rischio 25.000 posti di lavoro attualmente ricoperti dagli operatori del sociale. In che modo? Ad esempio selezionando i fornitori che assicurano costi inferiori (gare d’appalto al ribasso), trascurandone la qualità e con il rischio di crescente pressione da parte delle amministrazioni locali sul volontariato, nell’ottica burocratica della riduzione della spesa.

Dati del SIPS (Sistema Informativo delle Politiche Sociali) relativi alla regione Emilia Romagna nel periodo compreso tra il 2002 ed il 2010.

 

LA SPESA PER IL WELFARE: L’ITALIA A CONFRONTO CON L’EUROPA.

Gli ultimi anni hanno segnato l’inizio di un momento di difficoltà destinato ad aggravarsi rapidamente. Tale difficoltà è accentuata dal fatto che i bisogni aumentano costantemente (invecchiamento, impoverimento) e l’offerta di servizi risulta comunque inadeguata in gran parte del paese. La crisi dei servizi, dunque, sarà un tema cruciale per l’immediato futuro.
Analizziamo ora qualche dato per comprendere meglio la situazione italiana in riferimento
al mondo del sociale, facendo un confronto con gli altri stati europei. Per quanto riguarda gli investimenti economici nei servizi sociali veri e propri, l’Italia presenta un gap importante rispetto al resto d’Europa: l’1,39% contro il 3,27% della media europea. Questo significa che i nostri principali referenti investono circa il doppio della nostra quota nazionale (Regno Unito 3,8%, Spagna 2,4%, Germania 2,6%, Francia 3,8%). Anche le risorse che l’Italia dedica alla disabilità, alla famiglia e all’esclusione sociale sono nettamente inferiori alla media europea, in particolare: - per la disabilità (adulti e anziani) si spende il 24% in meno - per la famiglia il gap è del 42%; - per l’esclusione sociale la distanza dall’Europa arriva fino all’85%. L’Italia spende lo 0,8% del suo Pil, contro una media europea del 2,2% (dal 2% della Spagna, al 2,7% del Regno Unito) mentre, se allargassimo il confronto ai Paesi scandinavi, la distanza sarebbe ancora più pronunciata e troveremmo la Svezia con il 6,7%. Questi dati mettono in rilievo la situazione di forte criticità in cui si trova il settore del sociale italiano e il peggioramento atteso per il prossimo futuro. E’ chiaro che l’assenza di adeguate politiche nazionali rappresenti una tra le cause principali della situazione venutasi a creare. Investire nel welfare sociale, oggi, in Italia è necessario ed urgente: le politiche sociali italiane sono sospese tra la necessità di sviluppo ed il rischio di un’ulteriore involuzione. La sfida è riuscire, tra i vincoli dettati dalla crisi economica e le crescenti domande d’intervento, a progettarne un futuro adeguato. Per farlo, il punto di partenza non può che essere l’analisi dei dati di realtà.

 

POVERTA’ ED EMARGINAZIONE SOCIALE

Particolarmente grave nel nostro paese è la diffusione della povertà nella sua forma assoluta, tale cioè da non consentire di far fronte alle esigenze basilari di vita. Secondo dati Istat del 2011 la quota di persone soggette a gravi deprivazioni materiali risulta, infatti, elevata in Italia, pari al 7% della popolazione (4.2 milioni di individui), quota maggiore di due punti percentuali rispetto alla situazione osservata nella maggior parte degli altri paesi europei. Tale condizione di povertà si aggrava quando si tratta di anziani soli e arriva all’8% quando nel nucleo familiare sono presenti figli a carico (contro il 5.6% per l’Ue15), per arrivare al 10.5% quando i minori in famiglia sono più di due. In Italia, povertà ed emarginazione sociale riguardano quasi 15 milioni di persone, vale a dire circa un quarto della popolazione e in prospettiva comparata, considerando l’Ue15, il nostro paese si trova fra quelli in cui l’incidenza di questi rischi è maggiore (24.7%), insieme a Portogallo, Irlanda e Grecia. Povertà ed emarginazione sociale in Italia non solo riguardano un’ampia fascia della popolazione, ma colpiscono in modo sensibilmente più marcato i minori. Nel complesso, 2.7 milioni di bambini – pari al 28,4% degli individui con meno di sedici anni - si trovano in condizioni di deprivazione economica e sociale con un’incidenza di cinque punti percentuali superiore rispetto alla media per l’Ue15 (23,4%) e di poco inferiore solo al dato registrato per la Grecia (29,4%) e per l’Irlanda (31,5%). Da tempo, la ricerca ha infatti messo in luce come un contesto familiare svantaggiato incida sia sui risultati scolastici dei bambini e sui loro livelli di scolarizzazione, sia sul loro futuro reddito. Al fine di interrompere questo circolo vizioso di trasmissione intergenerazionale dello svantaggio, vari studi hanno confermato l’efficacia di politiche mirate di investimento sulle famiglie, i cui ingredienti principali sono servizi educativi e di cura di qualità, già per i primissimi anni di vita, e trasferimenti economici legati alla presenza di minori. Per quanto riguarda infine i valori medi della spesa pubblica dell’Ue15 e quelli registrati nel nostro paese, il confronto è illuminante. La spesa pubblica media europea, infatti, è del 31% superiore a quella italiana negli interventi per la non autosufficienza (anziani e disabilità), del 61% nel caso di famiglia e maternità e del 75% con riferimento alla povertà. Secondo la lettura dei dati fin qui proposti nel prossimo futuro le criticità riguarderanno l’offerta di servizi sociali e socio-educativi dei Comuni e sociosanitari delle ASL. Questi servizi, pure tra notevoli differenze territoriali, vivranno la medesima fase di difficoltà, dovuta al mix di tre fattori: a) il tradizionale sottofinanziamento, b) la rapida crescita della domanda c) la contrazione di risorse disponibili.

 

Ma quanto costano i servizi alle casse pubbliche dei Comuni e delle Regioni?

I dati rivelano un settore assai meno finanziato di quanto abitualmente si pensi: 0,4% del
Pil nel caso dei Comuni e 0,86% nel caso delle Regioni. Si tratta di una quota estremamente ridotta del bilancio pubblico: a titolo di esempio, basti pensare che, secondo l’Eurostat, la complessiva spesa pubblica per la protezione sociale ammonta al 26,5% del Pil. Secondo l’Istat nel 2009 la spesa pubblica per asili nido è risultata pari a 1.186 milioni di euro, a carico dei Comuni, cifra che equivale allo 0,09% del Pil; la spesa pubblica per servizi rivolti agli anziani non autosufficienti, a sua volta, equivale allo 0,64% del Pil, un valore che secondo la Ragioneria centrale dello Stato comprende l’insieme dei servizi domiciliari, residenziali e semi-residenziali. Sempre secondo Eurostat nel 2009 la spesa complessiva dei servizi e delle prestazioni monetarie contro la povertà, infine, è pari
allo 0,1% del Pil. Oltretutto, viste le bassissime percentuali di cui stiamo parlando, un aumento in percentuale notevole, si tradurrebbe in un investimento economico più basso di quanto si pensi.

 

CONCLUSIONI

Investire nelle politiche sociali e di prevenzione significa primariamente promuovere per tutti il diritto di cittadinanza e quindi rendere concreti i valori democratici su cui si fonda un
paese civile. Il welfare non è una concessione verso i più poveri e i più sfortunati, ma un
sistema di azioni che consentono una reale partecipazione e creazione di valore sociale. Solo se i governi e gli amministratori comprenderanno che finanziare la prevenzione e i servizi alla persona significa consentire ad ampi strati della popolazione di essere  autonomi, capaci di pensiero critico e di poter perseguire le migliori condizioni di vita possibile per sé e per la comunità, allora chi, come gli Educatori, si batte affinché nella cultura diffusa del nostro paese si affermi la consapevolezza che pari condizioni ed opportunità per ogni cittadino significhi raggiungere una reale e concreta democrazia, potrà svolgere il proprio lavoro senza dover anche supplire un ruolo politico. La crisi in cui ci troviamo tutti a dover vivere, è ormai chiaro, è la crisi di un modello sociale, economico e culturale. Questa ha ulteriormente aggravato le disuguaglianze e la frantumazione del tessuto relazionale che teneva insieme la comunità. Proponiamo allora di avviare un percorso condiviso che possa affrontare, con la dovuta attenzione, poiché tocca immediatamente le condizioni di vita dei cittadini, e con la più ampia partecipazione di attori sociali ed istituzionali - sia nazionali che territoriali – il tema di un welfare efficiente e, allo stesso tempo, attento a non svilire il ruolo attivo dei professionisti, così come quello dei destinatari dei servizi. Se intendiamo garantire un equilibrato sistema di promozione e protezione sociale ed un modello universalistico, solidale e sussidiario è
necessario aprire una fase costituente del sociale che avvii un processo di riforma del welfare.
In questo senso la voce degli Educatori e dei professionisti del lavoro sociale può, e deve,
rappresentare una risorsa da cui le policy makers possono, e devono, attingere per cercare nuove idee, nuove proposte, nuove risposte. Se la voce degli Educatori non troverà  ascolto, allora il movimento di chi non si rassegna al qualunquismo e all’omologazione culturale avrà ancora ragione di esistere.

 

PER LA REALIZZAZIONE DEL PROGETTO HANNO COLLABORATO

KRILA ED EDUCATORI CONTRO I TAGLI