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domenica 7 aprile 2013

POSTIAMO ARTICOLO "ANNAMARIA, ROMEO E GIUSEPPE. LA NOSTRA VERGOGNA":


ANNAMARIA, ROMEO E GIUSEPPE. LA NOSTRA VERGOGNA.

di Paolo Coceancig*


Si sono vergognati. Strangolati da una politica economica che di loro non sapeva che farsene, se non sangue da tributare all’unica divinità incontestabile di questo inizio millennio, la parità di bilancio. Si sono vergognati. Accerchiati dall’indifferenza immorale del potere, troppo impegnato a propagandare il vaniloquio autoreferenziale dei suoi associati gaudenti. E si sono vergognati di noi. Noi che siamo servizio sociale. Noi che siamo deputati all’accoglienza. Annamaria e Romeo hanno preferito andarsene in silenzio in una disgraziata giornata marchigiana piuttosto che venire da noi, come li aveva esortati a fare il sindaco della loro città. Chiedere aiuto è cosa che stona con l’apoteosi del “fai da te” e della ricchezza ostentata di questi nostri schifosi anni.  “L’orgoglio e la dignità di una vita intera hanno impedito a quella coppia in disgrazia di rendere pubblico il proprio disagio” scrive Massimo Gramellini su “La Stampa”. E allora, di fronte ad una tragedia come questa, noi lavoratori del sociale non possiamo rimanere in silenzio, siamo troppo coinvolti, ci siamo troppo dentro: la storia di Annamaria, Romeo e Giuseppe è una nostra storia. Dal suo profilo su face book  Ida Dominijanni ci ammonisce, di fronte a tragedie come queste, a rifiutare la logica del silenzio riflessivo, a trasformare il giusto cordoglio in partecipazione attiva, “raccontando la disperazione di vite come queste per offrire a Romeo, Annamaria, Giuseppe e ai tanti, troppi come loro, l’unico gesto di solidarietà estrema, seppur fuori tempo massimo”.

Cos’è successo in questi ultimi trent’anni, cosa ci è successo? Com’è potuto accadere questo imbarbarimento che pare senza ritorno e che porta le persone ad anteporre la morte come scelta alla sacrosanta rivendicazione di un diritto che un tempo si sarebbe detto inviolabile?

Certo, non si parte favoriti in un conflitto portando sulle spalle la zavorra nostalgica del “c’era una volta” e gli anni settanta sono stati anche anni duri, bui, di sconfitte, sangue, tanta eroina e contrapposizioni spesso inutili. Ma anche delle ultime grandi conquiste sociali di questo paese, inutile metterle qui tutte in fila. Sono stati gli anni in cui, beata ingenuità, si pensava che il consolidamento dello stato sociale fosse definito una volta per tutte e che nessuno, mai più nessuno da destra o da sinistra, avrebbe messo in discussione l’idea che uno stato per dirsi veramente e concretamente civile dovesse avere tra le sue priorità quella di ridurre le disuguaglianze sociali. La grossolana prosperità degli anni ottanta ci aveva poi illuso di vivere in un paese che potesse far fronte senza troppa fatica ai bisogni del cittadino licenziato, socialmente ai margini, con la convinzione che l’assistenzialismo fosse parte integrante del modello economico imperante, accettando di conseguenza la fine dell’ideale alto, propugnato dai grandi pensieri del novecento europeo, dell’inclusione sociale di tutti, ma proprio tutti, gli individui.  Ecco dove ci ha portato quel lontano, primo cedimento: a Civitanova Marche, Aprile 2013. Perché le responsabilità della sinistra sono enormi: annacquandosi nel corteggiamento al moderatismo delle alleanze strategiche con banchieri e affaristi vari con l’obiettivo, peraltro mai centrato appieno, di governare comunque, ha smesso da tempo di parlare alla sofferenza della gente, ha lasciato che masse di disperati si buttassero nelle mani dei patetici vichinghi di Pontida o peggio, appesi ai sorrisi trentaduedenti del donatore di sogni brianzolo. A pensarci ora, che pensiero debole la paura della radicalità. Perfino quelli che fino a ieri avevano propugnato il liberismo temperato (?) come verità assoluta, oggi rimproverano al PD una scarsa incisività e una eccessiva sudditanza ai doveri di alleanza verso il governo Monti. Quanta ipocrisia nei commentatori di casa nostra, ancora una volta tutti pronti a saltare sul carro del vincitore del momento, fosse anche solo un comico esaltato da un improvviso picco di notorietà.

E la solidarietà, che brutta bestemmia. Un tempo sinonimo di diritto e oggi, ormai del tutto avvelenata dall’esuberanza penosa del miserabile mitomane di Arcore e della sua claque patetica e arrogante, percepita come elemosina ai pezzenti, beneficienza da questua domenicale.  Non abbiamo certo dimenticato gli ignobili siparietti di Berlusconi che tronfio esibisce in televisione la sua bontà imbevuta di assegni a nove zeri in favore del Don Gelmini di turno o che urla ai quattro venti la penosa (oltre che mai avvenuta) adozione della famiglia di disperati albanesi appena scesi da un gommone a Bari. Ridevamo delle boutades di quel cialtrone, e invece in quei passaggi televisivi si celebrava la fine del welfare state di casa nostra, la fine di conquiste sociali pagate con il prezzo di migliaia e migliaia di morti. Aprile 2013, Civitanova Marche, altri morti.

La nostra speranza appesa ormai solamente all’unico gesto d’amore autentico in questa brutta storia, Giuseppe che si butta nel mare per troppo dolore. Per un istante, il riscatto dell’uomo su così tanta disumanità. Dobbiamo molto a Giuseppe, tutti quanti.

Tagli dappertutto. Tagli da tutte le parti. Risanamento, aziendalizzazione, riformulazione, rimodulazione: una ridda di vocaboli in maschera per occultare l’unico dato reale: che il nostro welfare sta andando a puttane.  E se non bastasse, ancora tutti costretti a sorbirci la filastrocca ormai insopportabile che i fondi per il riequilibrio del sistema socio-sanitario vanno cercati al suo interno (che ne so: meno ospedali e più servizi ai minori oppure meno ambulatori e più “una tantum” agli anziani, la solita guerra tra sfighe e sfigati) e non negli sprechi abominevoli all’esterno (opere faraoniche senza senso, corse agli armamenti che non meriterebbero neppure una striscia di Sturmtruppen).

Basta. Basta. Basta.

E diciamocelo infine cosa avrebbero trovato Annamaria e Romeo se si fossero rivolti ai Servizi Sociali. Quasi sicuramente una spaventata Assistente Sociale fuori sede, contratto trimestrale, chiusa nel suo piccolo ufficio il più delle volte nello scantinato del palazzo comunale, e una sfilza di “Non ci sono più soldi, provate a chiedere alla Caritas. Ci potrebbe essere l’opportunità di una Borsa Lavoro, 2,70 euro all’ora, ma mi sa che siete un po’ in là con gli anni” o in alternativa “ma non avete qualcuno in famiglia che vi possa aiutare?”

Rivolgersi ai Servizi Sociali era la loro vergogna, la nostra, se l’avessero fatto, sarebbe stata quella di non avere più nulla o quasi, da offrire loro.

 

*degli “Educatori contro i tagli”