Oggi,
il lavoro dell’Educatore, che è lavoro di cura e di relazione, è poco
riconosciuto socialmente, generalmente poco pagato e senza prospettive di
miglioramento futuro.
Il welfare
risente fortemente della crisi e dei tagli alle risorse destinate alle Politiche
Sociali. I dati registrano un continuo
aumento dei bisogni, mentre il governo e le amministrazioni locali agiscono una
riduzione dei costi nella logica del risparmio e si orientano sempre più verso
il volontariato. Si prospetta uno scenario complessivo, che vede diminuire
qualità e quantità di servizi, mettendo a rischio quasi 25.000 posti di lavoro.
Se
intendiamo garantire un equilibrato sistema di promozione e protezione sociale,
è necessario aprire una fase costituente del sociale che avvii un
processo di riforma del welfare. La crisi dei servizi, dunque, sarà un tema
cruciale per l’immediato futuro. In tutto questo, che fine faranno gli
Educatori, professionisti del welfare?
FORMAZIONE E TITOLO DI STUDIO
- il numero
effettivo degli Educatori è stato in costante crescita, con 2052 Educatori nel
2002 fino ad arrivare a 3074 educatori nel 2007; - la maggioranza di Educatori
è sempre stata rappresentata dal genere femminile, anche se la percentuale
maschile è aumentata progressivamente, fino ad arrivare a circa il 32%,
attestando il genere femminile al restante 68%; - se alla fine degli anni ’80
quasi il 56% degli Educatori aveva meno di 30 anni e solo l’8% superava i 40
anni, oggi la proporzione si è invertita: il 42% ha tra 30 e 40 anni e il 21% ne
ha meno di 30; - il titolo di studio è un dato che invece si è solo
parzialmente modificato rispetto alla fine degli anni ’80: gli Educatori con il
titolo idoneo sono l’83.5%, contro il rimanente 16.5% (questo perché la maggior
parte degli Educatori aveva ottenuto l’attestato regionale attraverso il
decreto ministeriale 10.02.1984)
AREE DI INTERVENTO E SISTEMA LAVORATIVO
La
disabilità, a partire dalla fine degli anni ’80, rimane ancora un settore in
cui vengono impiegati moltissimi educatori (il 34% del totale), ma questa
fascia viene oggi sorprendentemente superata dall’area dei minori che si
attesta al 36%. Questo non era mai
successo. Ciò che è cambiato è l’ente per cui gli Educatori lavorano: se alla
fine degli anni ’80 il 33% lavorava nel privato, il 26% presso la sanità
pubblica e solo il 4% nelle cooperative,
nel 2010 i lavoratori delle cooperative si attestano intorno al 60%, meno del
6% lavora presso le Asl e la stessa percentuale presso Comune/Provincia/Regione. Questo a riprova del fatto che ormai il sistema
pubblico non gestisce più i servizi ma, di questi,
l’80% viene gestito dalla cooperazione sociale.
IL WELFARE SOCIALE NELLA SPESA PUBBLICA
ITALIANA
L’Emilia
Romagna ha sempre portato alto il suo spirito fortemente orientato al sociale.
E’ la regione, che ha sempre vantato il maggior numero di servizi alla persona
ed anche per questo è stata definita per molti anni, e forse lo è ancora, la regione
italiana in cui la qualità della vita si dimostra migliore. Il welfare in
Emilia Romagna è sempre stato una priorità e una grande fonte di investimento, nonostante
le risorse nazionali venissero azzerate. Ma, a causa della crisi e dai tagli
che il Governo Berlusconi e poi il Governo Monti hanno inflitto alle Politiche
Sociali, il welfare ne ha gravemente risentito. Secondo l’analisi del Forum
Nazionale del Terzo Settore, il biennio 2010-2011 si è contraddistinto innanzi
tutto per una netta riduzione del finanziamento statale alle politiche sociali.
Le risorse distribuite alle regioni dal Fnps (Fondo Nazionale per le Politiche
Sociali) nel 2011
sono solo un
terzo di quelle del 2009; insomma, se fino ad oggi l’obiettivo per i Comuni era
stato l’espansione dell’offerta pubblica (si pensi ai nidi, ma anche altri
servizi quali l’assistenza domiciliare ad anziani e persone disabili, la tutela
dei minori...), nella fase attuale gli
sforzi si concentrano per mantenere lo status quo, senza però prevedere una
chiara riorganizzazione del sistema del Welfare. Dopo la manovra dell’estate
2011 l’Ifel (Istituto per la
Finanza e l’Economia locale) ha stimato che per ottenere lo
sforzo finanziario, attraverso la riduzione di spesa richiesta per il 2012, i
Comuni dovrebbero tagliare la funzione sociale tra il 12,7% e il 13,5%. Tale
contrazione dell’intervento pubblico potrebbe più in generale tradursi in un
restringimento dei criteri di accesso ai servizi sociali e ad una maggior
difficoltà di accesso ai servizi da parte delle famiglie e dei singoli cittadini.
Questo si traduce nella possibilità che il pubblico torni ad intervenire
socialmente soltanto
nelle situazioni di urgenza conclamata e che abbandoni gli interventi di
prevenzione, area in cui vengono impiegati un elevatissimo numero di educatori
e che l’urgenza
costringa a ridurre i livelli qualitativi dei servizi, mettendo a rischio
25.000 posti di lavoro attualmente ricoperti dagli operatori del sociale. In
che modo? Ad esempio selezionando i fornitori che assicurano costi inferiori
(gare d’appalto al ribasso), trascurandone la qualità e con il rischio di
crescente pressione da parte delle amministrazioni locali sul volontariato,
nell’ottica burocratica della riduzione della spesa.
Dati del SIPS (Sistema Informativo delle Politiche Sociali)
relativi alla regione Emilia Romagna nel periodo compreso tra il 2002 ed il 2010.
Gli ultimi
anni hanno segnato l’inizio di un momento di difficoltà destinato ad aggravarsi
rapidamente. Tale difficoltà è accentuata dal fatto che i bisogni aumentano
costantemente (invecchiamento, impoverimento) e l’offerta di servizi risulta
comunque inadeguata in gran parte del paese. La crisi dei servizi, dunque, sarà
un tema cruciale per l’immediato futuro.
Analizziamo
ora qualche dato per comprendere meglio la situazione italiana in riferimento
al mondo del
sociale, facendo un confronto con gli altri stati europei. Per quanto riguarda
gli investimenti economici nei servizi sociali veri e propri,
l’Italia presenta un gap importante rispetto al resto d’Europa: l’1,39% contro
il 3,27% della media europea. Questo significa che i nostri principali
referenti investono circa il doppio della nostra quota nazionale (Regno Unito
3,8%, Spagna 2,4%, Germania 2,6%, Francia 3,8%). Anche le risorse
che
l’Italia dedica alla disabilità, alla famiglia e all’esclusione sociale sono
nettamente inferiori alla media europea, in particolare: - per la disabilità
(adulti e anziani) si spende il 24% in meno - per la famiglia il gap è del 42%;
- per l’esclusione sociale la distanza dall’Europa arriva fino all’85%. L’Italia
spende lo 0,8% del suo Pil, contro una media europea del 2,2% (dal 2% della
Spagna, al 2,7% del Regno Unito) mentre, se allargassimo il confronto ai Paesi
scandinavi, la distanza sarebbe ancora più pronunciata e troveremmo
la Svezia con
il 6,7%. Questi dati mettono in rilievo la situazione di forte criticità in cui
si trova il settore del sociale italiano e il peggioramento atteso per il
prossimo futuro. E’ chiaro che l’assenza di adeguate politiche nazionali rappresenti
una tra le cause principali
della situazione venutasi a creare. Investire nel welfare sociale, oggi, in
Italia è necessario ed urgente: le politiche sociali italiane sono sospese tra
la necessità di sviluppo ed il rischio di un’ulteriore involuzione. La sfida è
riuscire, tra i vincoli dettati dalla crisi economica e le crescenti domande
d’intervento, a progettarne un futuro adeguato. Per farlo, il punto di partenza
non può che essere l’analisi dei dati di realtà.
POVERTA’ ED EMARGINAZIONE SOCIALE
Particolarmente
grave nel nostro paese è la diffusione della povertà nella sua forma assoluta,
tale cioè da non consentire di far fronte alle esigenze basilari di vita.
Secondo dati Istat del 2011 la quota di persone soggette a gravi deprivazioni
materiali risulta, infatti, elevata in Italia, pari al 7% della popolazione
(4.2 milioni di individui), quota maggiore di due punti
percentuali rispetto alla situazione osservata nella maggior parte degli altri
paesi europei.
Tale condizione di povertà si aggrava quando si tratta di anziani soli e arriva all’8%
quando nel nucleo familiare sono presenti figli a carico (contro il 5.6% per
l’Ue15), per arrivare
al 10.5% quando i minori in famiglia sono più di due. In Italia, povertà ed emarginazione
sociale riguardano quasi 15 milioni di persone, vale a dire circa un quarto
della popolazione e in prospettiva comparata, considerando l’Ue15, il nostro
paese si trova fra quelli in cui l’incidenza di questi rischi è maggiore
(24.7%), insieme a Portogallo, Irlanda e Grecia. Povertà ed emarginazione
sociale in Italia non solo riguardano un’ampia fascia della popolazione, ma
colpiscono in modo sensibilmente più marcato i minori. Nel complesso, 2.7
milioni di bambini – pari al 28,4% degli individui con meno di sedici anni - si
trovano in condizioni di deprivazione economica e sociale con un’incidenza di
cinque punti percentuali superiore rispetto alla media per l’Ue15 (23,4%) e di
poco inferiore solo al dato registrato per la Grecia (29,4%) e per l’Irlanda (31,5%). Da tempo,
la ricerca ha infatti messo in luce come un contesto familiare svantaggiato
incida sia sui risultati scolastici dei bambini e sui loro livelli di
scolarizzazione, sia sul loro futuro reddito. Al fine di interrompere questo
circolo vizioso di trasmissione intergenerazionale dello svantaggio, vari studi
hanno confermato l’efficacia di politiche mirate di investimento sulle
famiglie, i cui ingredienti principali sono servizi educativi e di cura di
qualità, già per i primissimi anni di vita, e trasferimenti economici legati
alla presenza di minori. Per quanto riguarda infine i valori medi
della spesa pubblica dell’Ue15 e quelli registrati nel nostro paese, il
confronto è illuminante.
La spesa pubblica media europea, infatti, è del 31% superiore a quella italiana
negli interventi per la non autosufficienza (anziani e disabilità), del 61% nel
caso di famiglia e maternità e del 75% con riferimento alla povertà. Secondo la
lettura dei dati fin qui proposti
nel prossimo futuro le criticità riguarderanno l’offerta di servizi sociali e
socio-educativi dei Comuni e sociosanitari delle ASL. Questi servizi, pure tra
notevoli differenze territoriali, vivranno la medesima fase di difficoltà,
dovuta al mix di tre fattori: a) il tradizionale sottofinanziamento, b) la
rapida crescita della domanda c) la contrazione di risorse disponibili.
Ma quanto costano i servizi alle casse
pubbliche dei Comuni e delle Regioni?
I dati
rivelano un settore assai meno finanziato di quanto abitualmente si pensi: 0,4%
del
Pil nel caso
dei Comuni e 0,86% nel caso delle Regioni. Si tratta di una quota estremamente
ridotta del bilancio pubblico: a titolo di esempio, basti pensare che, secondo
l’Eurostat, la complessiva spesa pubblica per la protezione sociale ammonta al
26,5% del Pil. Secondo l’Istat nel 2009 la spesa pubblica per asili nido è risultata
pari a 1.186 milioni di euro, a carico dei Comuni, cifra che equivale allo
0,09% del Pil; la spesa pubblica per servizi rivolti agli anziani non
autosufficienti, a sua volta, equivale allo 0,64% del Pil, un valore che
secondo la Ragioneria
centrale dello Stato comprende l’insieme dei servizi domiciliari, residenziali
e semi-residenziali. Sempre secondo Eurostat nel 2009 la spesa complessiva dei
servizi e delle prestazioni monetarie contro la povertà, infine, è pari
allo 0,1%
del Pil. Oltretutto, viste le bassissime percentuali di cui stiamo parlando, un
aumento in percentuale notevole, si tradurrebbe in un investimento economico
più basso di quanto si pensi.
CONCLUSIONI
Investire
nelle politiche sociali e di prevenzione significa primariamente promuovere per
tutti il diritto di cittadinanza e quindi rendere concreti i valori democratici
su cui si fonda un
paese
civile. Il welfare non è una concessione verso i più poveri e i più sfortunati,
ma un
sistema di
azioni che consentono una reale partecipazione e creazione di valore sociale.
Solo se i governi e gli amministratori comprenderanno che finanziare la
prevenzione e i servizi alla persona significa consentire ad ampi strati della
popolazione di essere autonomi, capaci
di pensiero critico e di poter perseguire le migliori condizioni di vita
possibile per sé e per la comunità, allora chi, come gli Educatori, si batte
affinché nella cultura
diffusa del nostro paese si affermi la consapevolezza che pari condizioni ed
opportunità per ogni cittadino significhi raggiungere una reale e concreta
democrazia, potrà svolgere il proprio lavoro senza dover anche supplire un
ruolo politico. La crisi in cui ci troviamo tutti a dover vivere, è ormai
chiaro, è la crisi di un modello sociale, economico e culturale. Questa ha
ulteriormente aggravato le disuguaglianze e la frantumazione del tessuto
relazionale che teneva insieme la comunità. Proponiamo allora di avviare un
percorso condiviso che possa affrontare, con la dovuta attenzione, poiché tocca
immediatamente le condizioni di vita dei cittadini, e con la più ampia partecipazione
di attori
sociali ed istituzionali - sia nazionali che territoriali – il tema
di un welfare efficiente e, allo
stesso tempo, attento a non svilire il ruolo attivo dei professionisti, così
come quello dei
destinatari dei servizi. Se intendiamo garantire un equilibrato sistema di promozione e
protezione sociale ed un modello universalistico, solidale e sussidiario è
necessario aprire una
fase costituente del sociale che avvii un processo di riforma del welfare.
In questo
senso la voce degli Educatori e dei professionisti del lavoro sociale può, e
deve,
rappresentare
una risorsa da cui le policy makers possono, e
devono, attingere per cercare nuove idee, nuove proposte, nuove risposte. Se la
voce degli Educatori non troverà
ascolto, allora il movimento di chi non si rassegna al qualunquismo e
all’omologazione culturale avrà ancora ragione di esistere.
PER
LA REALIZZAZIONE DEL
PROGETTO HANNO COLLABORATO
KRILA
ED EDUCATORI CONTRO I TAGLI
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