Gli educatori di said, cherif, ahmed e omar
A proposito di fondamentalismi, periferie e tagli ai servizi
Trascorso un po’ di tempo dagli eventi criminali di Parigi si pensava dovesse cominciare, una volta smaltito lo shock emotivo generale, il tempo del ragionamento e dell’elaborazione dei fatti, ed ecco che da Copenaghen arrivano nuove terribili notizie: un altro vendicatore sanguinario ha trovato il suo posto a buon mercato in paradiso massacrando chiunque gli sia capitato a tiro.
La biografia personale degli attentatori è sempre la stessa: nativi occidentali, figli disconosciuti di quegli enormi parcheggi di disagio esistenziale che sono diventate le nostre vuote periferie, adolescenze irrequiete consacrate al furto e al piccolo spaccio di quartiere, fuori e dentro da riformatori e galere minorili. La costituzione di un’entità statuale come l’Isis, fornendo un approdo ideologico possibile a queste disperazioni, ha aggravato la situazione.
Sia ben chiaro: nessun trauma infantile, nessuna deprivazione o ritratto famigliare disgraziato possono giustificare l’atrocità, la ferocia e il razzismo degli atti efferati di Parigi e Copenaghen.
Tuttavia, al netto di ogni suggestione contestuale, dobbiamo provare a ragionare su ciò che sta succedendo intorno a noi e dobbiamo farlo in fretta. Noi come sempre lo facciamo dal punto di vista di chi fa il nostro lavoro, l’educatore. Perché è inutile girarci troppo intorno: molti tra quelli che fanno questo mestiere nei servizi per minori, di possibili fratelli Kouachi, Ahmed Koulibaly, Omar Abdel Hamid el Hussein ne hanno conosciuti anche dalle nostre parti.
Allora, oltre che un dovere professionale, diventa una necessità vitale fare i conti con un fenomeno che, se da una parte sottolinea il palese fallimento dei processi di integrazione delle società del nord Europa (e di quella dei ragazzi delle sterminate e abbandonate banlieue francesi in particolare), dall’altra pone degli interrogativi non da poco anche al nostro quotidiano operare forme di mediazione sociale sul territorio italiano. Ricordo ancora il balbettante imbarazzo del collega francese che, intervistato su ciò che avevano combinato quelli che erano stati “i suoi ragazzi” in adolescenza, i due attentatori di Charlie Hebdo, non riusciva a capacitarsi del fatto che dei semplici bulletti di periferia potessero un giorno trasformarsi in micidiali armi di distruzione di massa.
Si, sono tutti uguali questi ragazzotti dell’altro lato della tangenziale, uguali anche ai coetanei italiani che vivono sul pianerottolo di fronte: gli stessi smartphone perennemente tra le mani, gli stessi vestiti rigorosamente griffati, lo stesso linguaggio da rappers consumati. Molti tra di loro balbettano a stento un arabo assimilato ascoltando le imprecazioni del padre operaio o disoccupato che rientra sfinito a casa la sera. Cresciuti nell’indifferenza, se non nel fastidio, verso la cultura originaria dei padri, vissuta come qualcosa di estraneo e imposto nel chiuso dei quaranta metri dell’appartamento, da smollareall’istante non appena fuori, scoprono, una volta adulti, la loro condizione di “differenti”, di discriminati, soprattutto in termini di opportunità che la società ospitante offre loro.
Il fondamentalismo islamico si nutre e si ingrassa, lo spiega molto bene Slavoj Zizek, del complesso d’inferiorità di questi ragazzi che diventano da un giorno all’altro facili prede di invasati predicatori da sottoscala. “Il problema dei fondamentalisti non è che li consideriamo inferiori a noi, ma al contrario che loro stessi si considerano segretamente inferiori. Il problema non è la differenza culturale (il loro sforzo per preservare la propria identità), ma il contrario, il fatto che i fondamentalisti sono già come noi, che segretamente hanno già interiorizzato i nostri parametri e misurano se stessi in base a essi. Il fondamentalismo è una reazione — una reazione falsa e mistificatrice, naturalmente — contro un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il liberalismo lo genera, ripetutamente” ha scritto in seguito ai fatti di Parigi il filosofo sloveno.
L’altro giorno sull’autobus mi è capitato di assistere ad una scena molto significativa in questo senso: tre ragazzi di chiara origine maghrebina “pizzicati” senza biglietto dal controllore. Mentre questi stilava i verbali dell’infrazione, i tre, dall’atteggiamento palesemente spavaldo e irritante, continuavano a picchiettare le dita sui loro costosissimi iphone di ultima generazione come se la cosa non li riguardasse.
Altroché valori universali dell’umanesimo occidentale, noi a questi ragazzi abbiamo trasmesso la vocazione insaziabile al soldo a tutti i costi, le virtù del consumo permanente, la superiorità insolente che infonde il marchio di Dolce e Gabbana sulla striscia di mutande lasciata bell’apposta in vista dai pantaloni a vita bassa. Le libertà civili e quella d’espressione in particolare che tanto evochiamo, siamo noi europei i primi ad averle dimenticate chissà dove, smettendo da un pezzo di coltivarle nel nostro vivere quotidiano e di difenderle così innanzitutto da noi stessi. “Io so questo: che chi pretende la libertà, poi non sa cosa farsene” scriveva Pier Paolo Pasolini.Non è l’odio per le libertà quello che principalmente muove la ferocia dei terroristi di casa nostra, bensì l’impossibilità di usufruirne (in termini di accumulo di ricchezza, si intende).
E allora, calandoci nel nostro micro, come rispondere al fenomeno nell’immediato? Semplice, intensificando la presenza di presidi educativi permanenti sui territori più a rischio: le periferie, la provincia. In parole povere, fare prevenzione.
I centri giovanili, e in particolare quelli socio-educativi rivolti ai minori a maggior rischio di esclusione sociale, offrono le professionalità appropriate, se utilizzate in stretta sinergia con altri progetti educativi più “mobili” sul territorio (penso all’educativa di strada), per attuare quei progetti educativi globali di inclusione volti a ridurre sensibilmente il rischio che il ragazzo si trasformi in un asociale incazzato, in un pericoloso cane sciolto, slegato da ogni vincolo comunitario.
Senza dimenticare che tali presidi, viste le caratteristiche di prossimità col bisogno, di vicinanza al disagio e di conoscenza diretta delle dinamiche del luogo, si prestano per loro natura a svolgere un prezioso lavoro di monitoraggio territoriale.
Dalle nostre parti hanno una lunga tradizione questo tipo di interventi, sono nati in tempi in cui il disagio giovanile faceva i conti con numeri più bassi, non era ancora il fenomeno straripante che vediamo ai giorni nostri. Si tratterebbe dunque di potenziare ciò che abbiamo (avevamo?) già, magari solo ricalibrandone modalità e strumenti per renderli più incisivi nella lotta alle nuove forme di emarginazione sociale.
Tutto così semplice? Non proprio.
Non vanno certo in questa direzione le scelte più recenti in materia di politiche giovanili dei nostri governanti locali. Pensiamo allo svilimento in termini qualitativi e quantitativi di certi servizi storicamente rivolti ai minori in alcune aree della provincia, alla recente assegnazione al ribasso della gara d’appalto dei centro giovanili dei quartieri di Bologna, alla propensione della politica, ormai neppure troppo velata, di affidarsi al volontariato e alle parrocchie per lavorare su un “materiale umano” che richiederebbe al contrario una sempre più elevata formazione e preparazione degli operatori impiegati e che così facendo arriva al paradosso di svilire proprio il senso stesso, nobile e produttivo, che possono avere volontariato e associazionismo laddove non sono usati semplicemente come ammortizzatori di costi, come supplenti di un servizio che ogni minore in difficoltà avrebbe il sacrosanto diritto di ricevere invece dal livello di competenza più alto possibile.
Mi si conceda infine una riflessione, la cui evidenza è tale che quasi imbarazza esternarla: se non si fa prevenzione si deve poi fare repressione.
E riempire un territorio di militari e di forze dell’ordine costa molto di più che non riempirlo di educatori, ma la lungimiranza in politica, si sa, è qualità in disuso, roba sorpassata. I risultati del lavoro che noi svolgiamo non hanno una visibilità immediata e questo, unitamente allo scarso appeal elettorale che di questi tempi ha un certo tipo di utenza, sono elementi che hanno un certo peso nella scelta delle priorità che operano i nostri amministratori. Eppure mai come ora sarebbe vitale che la politica ritornasse ad avere delle idee di cambiamento sociale e che le promuovesse con azioni coraggiose anche se impopolari, che promuovesse finalmente una visione diversa di futuro, alternativa e non rassegnata, che togliesse una volta per tutte dalle mani ciniche e incompetenti dei soliti “guardiani del bilancio” incaricati dal partito la guida di servizi la cui complessità richiederebbe amministratori di ben altro spessore.
Bisognerebbe anche che noi lavoratori del sociale iniziassimo seriamente a dirle queste cose, a difendere con fermezza l’esistenza di questi servizi e con esso un’idea diversa, più solidale e comunitaria, di società. Bisognerebbe proprio che cominciassimo a farlo, almeno noi, prima che sia troppo tardi.
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