ANNAMARIA, ROMEO E
GIUSEPPE. LA NOSTRA
VERGOGNA.
di Paolo Coceancig*
Si sono vergognati. Strangolati
da una politica economica che di loro non sapeva che farsene, se non sangue da
tributare all’unica divinità incontestabile di questo inizio millennio, la parità
di bilancio. Si sono vergognati. Accerchiati dall’indifferenza immorale del potere,
troppo impegnato a propagandare il vaniloquio autoreferenziale dei suoi
associati gaudenti. E si sono vergognati di noi. Noi che siamo servizio
sociale. Noi che siamo deputati all’accoglienza. Annamaria e Romeo hanno
preferito andarsene in silenzio in una disgraziata giornata marchigiana
piuttosto che venire da noi, come li aveva esortati a fare il sindaco della
loro città. Chiedere aiuto è cosa che stona con l’apoteosi del “fai da te” e
della ricchezza ostentata di questi nostri schifosi anni. “L’orgoglio e la dignità di una vita intera hanno impedito a
quella coppia in disgrazia di rendere pubblico il proprio disagio” scrive Massimo
Gramellini su “La Stampa ”.
E
allora, di fronte ad una tragedia come questa, noi lavoratori del sociale non
possiamo rimanere in silenzio, siamo troppo coinvolti, ci siamo troppo dentro:
la storia di Annamaria, Romeo e Giuseppe è una nostra storia. Dal suo profilo su face book Ida Dominijanni ci
ammonisce, di fronte a tragedie come queste, a rifiutare la logica del silenzio
riflessivo, a trasformare il giusto cordoglio in partecipazione attiva,
“raccontando la disperazione di vite come queste per offrire a Romeo,
Annamaria, Giuseppe e ai tanti, troppi come loro, l’unico gesto di solidarietà
estrema, seppur fuori tempo massimo”.
Cos’è successo
in questi ultimi trent’anni, cosa ci è successo? Com’è potuto accadere questo
imbarbarimento che pare senza ritorno e che porta le persone ad anteporre la
morte come scelta alla sacrosanta rivendicazione di un diritto che un tempo si
sarebbe detto inviolabile?
Certo, non si
parte favoriti in un conflitto portando sulle spalle la zavorra nostalgica del
“c’era una volta” e gli anni settanta sono stati anche anni duri, bui, di sconfitte,
sangue, tanta eroina e contrapposizioni spesso inutili. Ma anche delle ultime
grandi conquiste sociali di questo paese, inutile metterle qui tutte in fila. Sono
stati gli anni in cui, beata ingenuità, si pensava che il consolidamento dello
stato sociale fosse definito una volta per tutte e che nessuno, mai più nessuno
da destra o da sinistra, avrebbe messo in discussione l’idea che uno stato per
dirsi veramente e concretamente civile dovesse avere tra le sue priorità quella
di ridurre le disuguaglianze sociali. La grossolana prosperità degli anni ottanta ci aveva
poi illuso di vivere in un paese che potesse far fronte senza troppa fatica ai
bisogni del cittadino licenziato, socialmente ai margini, con la convinzione
che l’assistenzialismo fosse parte integrante del modello economico imperante,
accettando di conseguenza la fine dell’ideale
alto, propugnato dai grandi pensieri del novecento europeo, dell’inclusione
sociale di tutti, ma proprio tutti, gli individui. Ecco dove ci ha portato quel lontano, primo
cedimento: a Civitanova Marche, Aprile 2013. Perché le responsabilità della
sinistra sono enormi: annacquandosi nel corteggiamento al moderatismo delle
alleanze strategiche con banchieri e affaristi vari con l’obiettivo, peraltro mai
centrato appieno, di governare comunque, ha smesso da tempo di parlare alla sofferenza
della gente, ha lasciato che masse di disperati si buttassero nelle mani dei
patetici vichinghi di Pontida o peggio, appesi ai sorrisi trentaduedenti del
donatore di sogni brianzolo. A pensarci ora, che pensiero debole la paura della
radicalità. Perfino quelli che fino a ieri avevano propugnato il liberismo
temperato (?) come verità assoluta, oggi rimproverano al PD una scarsa
incisività e una eccessiva sudditanza ai doveri di alleanza verso il governo
Monti. Quanta ipocrisia nei commentatori di casa nostra, ancora una volta tutti
pronti a saltare sul carro del vincitore del momento, fosse anche solo un
comico esaltato da un improvviso picco di notorietà.
E la
solidarietà, che brutta bestemmia. Un tempo sinonimo di diritto e oggi, ormai del
tutto avvelenata
dall’esuberanza penosa del miserabile mitomane di Arcore e della sua claque
patetica e arrogante, percepita come elemosina ai pezzenti, beneficienza da questua
domenicale. Non abbiamo certo
dimenticato gli ignobili siparietti di Berlusconi che tronfio esibisce in
televisione la sua bontà imbevuta di assegni a nove zeri in favore del Don
Gelmini di turno o che urla ai quattro venti la penosa (oltre che mai avvenuta)
adozione della famiglia di disperati albanesi appena scesi da un gommone a
Bari. Ridevamo delle boutades di quel
cialtrone, e invece in quei passaggi televisivi si celebrava la fine del welfare state di casa nostra, la fine di
conquiste sociali pagate con il prezzo di migliaia e migliaia di morti. Aprile
2013, Civitanova Marche, altri morti.
La nostra speranza appesa ormai
solamente all’unico gesto d’amore autentico in questa brutta storia, Giuseppe
che si butta nel mare per troppo dolore. Per un istante, il riscatto dell’uomo
su così tanta disumanità. Dobbiamo molto a Giuseppe, tutti quanti.
Tagli dappertutto. Tagli da
tutte le parti. Risanamento, aziendalizzazione, riformulazione, rimodulazione:
una ridda di vocaboli in maschera per occultare l’unico dato reale: che il nostro
welfare sta andando a puttane. E se non bastasse,
ancora tutti costretti a sorbirci la filastrocca ormai insopportabile che i
fondi per il riequilibrio del sistema socio-sanitario vanno cercati al suo
interno (che ne so: meno ospedali e più servizi ai minori oppure meno
ambulatori e più “una tantum” agli anziani, la solita guerra tra sfighe e
sfigati) e non negli sprechi abominevoli all’esterno (opere faraoniche senza
senso, corse agli armamenti che non meriterebbero neppure una striscia di Sturmtruppen).
Basta.
Basta. Basta.
E
diciamocelo infine cosa avrebbero trovato Annamaria e Romeo se si fossero
rivolti ai Servizi Sociali. Quasi sicuramente una spaventata Assistente Sociale
fuori sede, contratto trimestrale, chiusa nel suo piccolo ufficio il più delle
volte nello scantinato del palazzo comunale, e una sfilza di “Non ci
sono più soldi, provate a chiedere alla Caritas. Ci potrebbe essere
l’opportunità di una Borsa Lavoro, 2,70 euro all’ora, ma mi sa che siete un po’
in là con gli anni” o in alternativa “ma non avete qualcuno in famiglia che vi
possa aiutare?”
Rivolgersi ai
Servizi Sociali era la loro vergogna, la nostra, se l’avessero fatto, sarebbe
stata quella di non avere più nulla o quasi, da offrire loro.
*degli “Educatori contro i tagli”
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